"The Shadow Theory"
Country: USA
Genre: power metal
Genre: power metal
Tracklist:
1.The Mission
2.Phantom Devine (Shadow Empire)
3.Raven Light
4.Amnesiac
5.Burns To Embrace
6.In Twilight Hours
7.Kevlar Skin
8.Static
9.Mindfall Remedy
10.Stories Unheard
11.Vespertine (My Crimson Bride)
12.The Proud And The Broken
13.Ministrium (Shadow Key)
Più che gradevole The Shadow Theory, il dodicesimo lavoro in studio della power metal band di Tampa, in uscita per Napalm Records agli inizi di Aprile. Tommy Karevik, voce dei Kamelot ormai dal 2012 (dopo l'uscita dello storico vocalist norvegese Roy Kahn) e company non si risparmiano e introducono anche una new entry alle percussioni, dato che Casey Grillo, pochi mesi fa, pare abbia preferito intraprendere altre scelte artistiche. Il nuovo batterista, tuttavia, Johan Nunez, dei Firewind, non è un perfetto sconosciuto e si difende piuttosto bene, con ottima tecnica e precisione.
L'album vanta 13 bei pezzi, tra i quali un' intro strumentale, seguita da 3 pezzi di pregevole fattura, che, però, personalmente, non definirei veri e propri capolavori, mentre "Burns To Embrace" merita una menzione d'onore, perché oltre agli arrangiamenti, tecnicamente ineccepibili, si distingue per un fantastico coro di voci bianche sul refrain, che ci sta divinamente e ti prende tantissimo, così ti trovi a cantarlo immediatamente, il che, di solito, è un buon segno anche per la resa live.
Classica ballad a due voci la successiva "In Twilight Hours", con un respiro strumentale da sogno, che ben supporta l'intreccio vocale di Karevik e della special guest Jennifer Haben, dei Beyond The Black, band teutonica, la cui estensione vocale è di tutto rispetto.
Kevlar Skin è un esercizio di eccelso stile per i virtuosismi degli strumentisti, in special modo di Thomas Youngblood alle sei corde, mentre Sean Tibbets al basso e Oliver Palotai alle tastiere ne restano un po' sommersi. Se Static è una traccia piacevole, ma senza grandi pretese, "Mindfall Remedy" è un pezzo che picchia duro e finalmente anche la sezione ritmica si prende la sua rivincita, con bassi e percussioni che dettano legge e Karevik che è costretto ad affilare le unghie e a scaldare ben bene le corde vocali per passare agevolmente dagli acuti al growl incazzatissimo che, invece, scopro appartenere, almeno in parte, a una guest vocalist, Lauren Hart dei californiani Once Human, già ospite su questo stesso disco nella seconda traccia, "Phantom Devine", della quale si può trovare il video ufficiale su Youtube. Certo, abbiamo dovuto arrivare alla nona song per vedere scorrere un po' di buon sangue che ribolle nelle vene, ma va bene così e procediamo, avviandoci verso la chiusura. "Stories Unheard" ha un titolo adatto a una slow song, un titolo da ballata e non si smentisce, ma non spicca come la precedente, pur essendo un gran pezzo. Inizia e prosegue alla grandissima Vespertine, che ha un tiro da soundtrack, con ritornello e cori immediati, che funzionano come una trivella nelle sinapsi, supportati egregiamente dalla batteria e dalle sei corde; un brivido, indubbiamente il pezzo migliore fino a questo momento, per quanto riguarda il coinvolgimento a livello emotivo.
Ci rimangono "The Proud And The Broken" e "Ministrium". Dolce e delicato l'intro di pianoforte nella prima, anche se viene subito spezzato dall'incedere brutale delle chitarre, del basso e delle percussioni. Innegabilmente un pezzo di valore, che scommetto andrà molto bene dal vivo e in cui si ha modo di apprezzare particolarmente il colore della voce di Karevik, molto sensuale e accattivante. Decisamente preziosi anche gli assoli di chitarra che, con trilli e stridori, riescono a dare ancora più calore e spessore a una traccia impegnativa, di quasi 6 minuti e mezzo. A concludere l'album in maniera elegante e un po' manieristica uno splendido pezzo strumentale, in cui, verso le fine, partono imponenti cori in latino.
Non può lasciare indifferenti questo The Shadow Theory, anche se, probabilmente, servirà più di un ascolto per poterlo pienamente apprezzare. E' uno di quegli album in cui, ogni volta che lo si mette su, si coglie qualcosa di nuovo, qualche particolare che precedentemente era sfuggito.
Ovviamente non posso che consigliarlo agli amanti del genere, perché è indubbiamente ben concepito e con un processo compositivo pressoché ineccepibile. Però, sempre opinione mia, personalissima, la butto lì, non me ne vogliate, io mi sarei aspettata quel qualcosa in più da una band di veterani, non tanto a livello di tecnica, quanto più forse a livello di coinvolgimento emotivo che, tranne per alcuni pezzi, in cui mi è parso subito evidente, in altri era un po' più freddo e sterile.
Ad ogni modo, speriamo di poter ascoltare presto i Kamelot dal vivo anche qui in Italia, anche perché, magari, la dimensione live potrebbe far apprezzare maggiormente un album comunque degno di nota e restituirgli un po' più di cuore.